Consolate, consolate il mio popolo

CONSOLARE: il significato di questo vocabolo rimanda al termine “solo”, quindi, “consolare” è sostanzialmente “stare con uno che è solo”. Il card. Ravasi scrive che

tanta tristezza o dolore nasce proprio dall’essere soli e abbandonati, privi di una presenza che ti riscaldi, di una mano che ti accarezzi, di una parola che spezzi il silenzio e le lacrime. (…) La solitudine è il campo da gioco di Satana, ed è per questo che lo Spirito Santo è detto il Consolatore”.

Per consolare c’è un combattimento da affrontare, una lotta spirituale, perché in questo tempo di pandemia rischiamo di essere travolti da tutti i punti di vista: familiare, sociale, sanitario, finanziario, materiale, e anche spirituale.

Il primo combattimento è accettare i limiti, a cui non siamo abituati. Dopo le ristrettezze della guerra mondiale, ci siamo convinti che possiamo tutto e abbiamo diritto a tutto. E allora abbiamo bisogno di umiltà per guardare con tenerezza ai nostri limiti e a quelli degli altri, e coraggio per non cedere alla voglia di guardare indietro, all’idea romantica dei ‘vecchi tempi’, accettando che “siamo non in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca” (papa Francesco).

Il clima ansiogeno che ci attornia fa crescere le paure. Allora qui scatta il combattimento per rimanere prossimi al nostro prossimo. Con altre modalità, con nuova creatività. L’alternativa è cedere alla rabbia, al sospetto, allo scoraggiamento, alla nostalgia e al rimpianto. Non possiamo fare tutto, ma possiamo fare qualcosa, forse molto, se non ci lasciamo accecare dal rimpianto di non saper fare quello che non possiamo fare!

Non siamo chiamati a minacciare i castighi di Dio, ma ad incoraggiare, a consolare. Abbiamo molti modi per farlo. Prendo quello della preghiera gli uni per gli altri; anche questo è un combattimento, accessibile a tutti.

Scrive il teologo Pierangelo Sequeri:

Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti”.

 

Dalla Rivista Sulla Via della Pace n.62, articolo di Tiziano Civettini
Sociologo e teologo
Rubrica Check point

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