Vicino ai lontani

Un giorno uno studente chiese a una famosa antropologa quale fosse stato il primo segno di civiltà in una cultura. Si aspettava che le rispondesse qualche scoperta particolare (un metallo, il fuoco…).

La professoressa rispose: una gamba rotta guarita.

Un animale, se si rompe una gamba, è destinato a morire, a diventare facile preda di qualche altro animale. Ma una gamba rotta guarita è la dimostrazione che qualcuno si è preso cura di te.

La nostra civiltà non è fondata sulla sapienza, sulla forza, ma sulla debolezza. È la debolezza – quella che tendiamo a negare con tutte le nostre forze, quella che non appare mai dai nostri selfie – a tirar fuori la parte migliore di noi: la compassione, quando non c’è più un “io” e un “tu”, ma un “noi”. È lì che nasce la civiltà.

Quando decidiamo di lasciare campo libero alla compassione, scopriamo la vertigine dell’amore. E la tentazione è quella di tornare subito indietro. Ci accorgiamo di quanto l’amore sia destabilizzante, perché, ogni volta che cerchiamo di porgli un limite, lui ci spinge ad andare oltre, a entrare nella dimensione del di più; e al di più non si può mettere un limite.

E ci sembra di non farcela, ci sembra che la vita ci chieda troppo.

La vita non ci chiede troppo, ci chiede tutto, perché non si può vivere a metà. Ma è proprio quando fai più fatica, quando soffri, quando stai dando tutto, che il cuore si allarga (gli sportivi lo sanno bene). Gesù, durante la passione, ha sopportato fatiche enormi fino all’ultimo respiro, per poterci lasciare il cuore più grande che poteva, perché in quel cuore potesse esserci posto per tutti (cf Gv 14,2-3).

Ci giochiamo tutto qui: nelle volte che ci siamo alzati di notte per accudire i nostri figli, nelle volte che abbiamo ascoltato chi era prigioniero del proprio odio e delle proprie pesantezze, nelle volte che abbiamo accolto chi si sentiva spaesato, non amabile. Nelle volte… in cui ci siamo riconosciuti fratelli.

Ma chi è mio fratello?

…tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

Mio fratello è l’affamato, è lo straniero, è il malato, è il carcerato (Mt 25,35ss.). Perché sono bisognosi? No. Perché in loro c’è Gesù.

Nel povero c’è Gesù! Di più. Il povero, il bisognoso, è Gesù: un Dio che mendica il nostro amore! Un Dio che sta alla nostra porta e bussa (cfr Ap 3,20). Un Dio che ha deciso di aver bisogno di noi, che da ricco che era si fece povero (cfr 2Cor 8,9). È il Dio con noi ogni giorno, perché i poveri li abbiamo sempre con noi (cfr Mc 14,7).

Per questo tu, che fai parte della mia vita, chiunque tu sia – simpatico, antipatico, giusto, peccatore, amico, nemico –, sei e rimani la promessa di bene per me, perché in te vive quel Gesù che ha promesso di rimanere con me “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E sei tu a ricordarmelo.

Compassione, allora, è dire anche noi con Gesù: “l’avete fatto a me…” (Mt 25,40). Quando una ragazza del Myanmar è privata della sua libertà… “l’avete fatto a me…”. Quando un bambino pigmeo non può andare a scuola perché discriminato… “l’avete fatto a me…”. Perché tu, sorella birmana, tu, fratello congolese, sei carne della mia carne (cfr 1Cor 12,26). Non sei lontano. Sei parte di me!

 

Dalla Rivista Sulla Via della Pace n° 65, articolo di Ruggero Zanon
Dottore in diritto canonico, presidente dell’Associazione Via Pacis
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