Qualche mese fa ho letto un racconto davvero sorprendente. Il testo si concentrava su una domanda posta molti anni fa da una giovane studentessa all’antropologa statunitense Margaret Mead: “qual è il primo segno di civiltà in una cultura?”. La studentessa – racconta il testo – si aspettava che Mead parlasse di ganci, pentole di terracotta o smerigliatrici di pietra, ma non fu così. Secondo l’antropologa il primo segno di civiltà in una cultura antica fu un femore fratturato e poi guarito. La studiosa spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori: non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere o cercare cibo. Quando infatti qualcuno si rompe un femore – proseguiva Mead – non può sopravvivere per cacciare, pescare o sfuggire ai nemici a meno che non abbia l’aiuto di qualcun altro. Pertanto, un femore guarito, secondo la studiosa, indica che qualcuno si è preso cura della persona ferita, rimanendo con lei e offrendole aiuto, protezione fisica e compagnia fino a quando la ferita non è guarita. Qualcuno ha aiutato quella persona, piuttosto che abbandonarla e salvare solo se stesso.
Questa risposta, data quasi cento anni fa, porta con sé un’attualità davvero sorprendente. Quante volte sono troppo concentrata su me stessa al punto da non accorgermi degli altri? Quante volte, pur vedendo qualcuno con un femore rotto, non mi soffermo perché totalmente occupata dalla mia vita, dai miei pensieri, dai miei problemi?
Mi pongo queste domande, rendendomi conto di come tutti noi siamo molte volte assorbiti dalla frenesia del mondo che ci circonda, dallo scorrere delle giornate che spesso ci appare troppo veloce, dalle frequenti problematiche che la vita presenta a ognuno di noi, al punto di arrivare a non accorgerci di chi ci sta attorno perché troppo concentrati a vedere noi stessi.
Credo però che la missione per cui tutti noi siamo stati creati sia incarnare quel concetto di civiltà di cui parlava Margaret Mead, che nella nostra quotidianità può diventare un modo concreto e potente di essere cristiani. Sono convinta che nella società in cui viviamo riuscire ad accorgerci delle persone che incontriamo, scegliendo di ascoltare e accogliere l’altro, sia il passo più grande per essere testimoni della nostra fede. In questa vita, che talvolta ci appare troppo frenetica per poterci permettere di trovare uno spazio anche per gli altri, scegliere di dedicare del tempo a chi incontriamo, offrendo il nostro ascolto in questo mondo talvolta sordo, provando a dare un po’ di luce a chi si sente al buio, diventa un’azione rivoluzionaria.
Se sceglieremo di essere controcorrente, decidendo di utilizzare il nostro tempo per prenderci cura degli altri, il femore rotto di chi incontriamo non sarà una fatica da affrontare, ma un’occasione sorprendente per essere cristiani e incarnare e mettere in pratica il grande comandamento che abbiamo ricevuto da Dio: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
di Aurora Tezzele