E se tuo figlio beve?

Sono Emanuele, sposato con Sabrina. Insieme abbiamo avuto in dono quattro figli, tutti maschi, adesso in età compresa tra i 26 e i 19 anni. Unici e diversi tra loro e ognuno, a modo suo, capace di stupire e meravigliare, ma anche di mettere in crisi certezze e modalità che pensavamo acquisite o scontate.

Alcuni anni fa, un figlio, appena compiuto i 18 anni, iniziò a rientrare sempre più tardi il sabato sera. Eravamo preoccupati. Dal poco che ci raccontava e dai suoi comportamenti, sembrava caduto nella “moda”, in voga ancora oggi in gran parte del nostro Paese, di trovarsi in compagnia e ingurgitare superalcolici. Nonostante i nostri avvisi e raccomandazioni, una sera tornò molto tardi, ubriaco fradicio. Fui svegliato da Sabrina che mi disse: «Vai tu, io non ce la faccio a vederlo così». Sentivo i lamenti e i conati provenire dal bagno. Mentre scendevo le scale, in stato di semi veglia, credevo di essere sicuro di saper gestire la cosa. Avrei fatto una bella ramanzina e spiegato il male che si stava facendo. Aperta la porta del bagno mi trovai davanti a un volto sfigurato e un corpo, giovane e forte, abbattuto dall’alcol. … Non ero pronto come credevo! Rabbia e delusione presero il sopravvento su di me. Dalla mia bocca, con toni sprezzanti, uscirono solo giudizi e accuse. Tornai a letto, diviso in me stesso, deluso e frustrato. Dissi a Sabrina: «gli ho detto quello che si merita». Però non stavo bene, mi contorcevo dentro e sentivo di mentire a me stesso.

Il mattino seguente nessuno proferì parola su quanto successo. Era chiaro, però, che nulla era risolto; covavano accuse e sensi di colpa, da entrambe le parti. In più, erano palpabili, in nostro figlio, il rancore e la sfida che la mia reazione aveva provocato.

Cercammo di capire, come genitori, cosa fosse meglio fare. A tutti e due venne da pensare a una delle prime regole del nostro cammino: «La confidenza è nemico di Satana». Presi appuntamento con il mio accompagnatore, come primo passo, e fu determinante! Dopo aver narrato la mia versione dei fatti, mi fece alcune domande.

«Perché giudichi?» Rimasi stordito. Provai una difesa: «Sono suo padre! Devo pur insegnargli!»
«Perché giudichi?» Mi sentii sprofondare, o forse qualcuno mi aveva messo ko. Avrei voluto tornare indietro, su quelle scale …!

«Cosa avresti potuto fare di diverso?» silenzio … e lacrime iniziavano a solcare il mio viso. «Cosa avresti potuto fare di diverso?» Mi rimbombava dentro e poi risposi: «Amare!» … Amare!
Cioè il contrario di ciò che io avevo fatto. Il contrario di quanto mi viene chiesto, come genitore, prima ancora di tutto il resto.

Il fine settimana successivo la scena si ripete, tal quale, lamenti e conati dal bagno compresi. Era molto tardi e dissi a Sabrina: «vado io!». Scendendo le scale, ricordo che chiesi forza perché il papà debole che ero tornasse a vedere suo figlio, anche se in difficoltà, anche se deturpato dalle sue cadute. Ricordo un pensiero che uscì veloce dal cuore e mi fece ringraziare per l’occasione che mi si offriva. Aprii la porta. Uguale scena, cruda e penosa. Mi chinai su di lui, lo aiutai a pulirsi. Lo rincuorai e incoraggiai a non giudicarsi per questo. Poi lo aiutai a salire in camera sua, a spogliarsi e ad andare a letto. Pulii poi il bagno e tornai al mio letto. Questa volta mi sentivo in pace; bene con me stesso e con il mondo attorno. Sentivo unità dentro di me. Felice per quello che mi avevo visto fare e che non sarebbe mai uscito da me e da noi, se fossimo stati soli.

L’indomani fu un miracolo ancora più grande. Fummo accolti in cucina da quel figlio che, solo poche ore prima, era steso in bagno. Appena si incrociarono i nostri occhi, con la voce rotta dalla commozione ci chiese perdono. Non lo feci parlare e dissi che andava tutto bene, che gli vogliamo bene. Si volse verso Sabrina e piangendo disse che non lo avrebbe fatto mai più. Rimanemmo stupiti e rapiti da tanta grazia. Sono passati sette anni e da allora quel figlio non ha più avuto episodi simili.
Grati a Dio, a tante e tanti che in Via Pacis ci aiutano a crescere, a educare, ad amare, non perché bravi o perfetti, ma perché fratelli tutti.

 

Dalla Rivista Sulla Via della Pace n° 67, articolo di Emanuele Gasparetto
Rubrica Testimonianze

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