A-socialmente? (Seconda parte)

Internet è un mondo fantastico”: l’ho sentito spesso dire dai miei compagni di università, ed io sono d’accordo. Mi pare però che sia una macchina troppo veloce per una società che ha appena preso il “foglio rosa”. Internet e social media sono diventati uno strumento fondamentale per accedere ad informazioni importanti: sanità (specialmente durante questi tempi di pandemia di Covid-19), notizie aggiornate, possibilità di ampliare la propria conoscenza… Ma, attenzione: qual è il confine tra uso e abuso?

L’umanità continua ad evolvere e con essa le nuove forme di comunicazione: nuove possibilità ma anche nuovi problemi riguardanti l’etica, la privacy, la veridicità (o falsità) delle informazioni e, ovviamente, nuovi tipi di dipendenza.

Vorrei portare l’attenzione su questo ultimo aspetto: è noto a tutti l’utilizzo problematico da parte di molti preadolescenti e adolescenti di smartphone connessi ai social network. La socialità è un bisogno primario dell’uomo: la necessità di comunicare e comunicarsi, essere visti ed ascoltati, costruire la propria identità attraverso relazioni significative.

Le possibilità relazionali date dai social media sono incredibili (giusto qualche tempo fa mio papà ha ritrovato l’amico che aveva fatto il servizio militare con lui, parliamo degli anni ‘70) ma oggi ha dei connotati differenti: il social media è diventato un nuovo modo di essere e di mostrarsi agli altri.

Marshall McLuhan, sociologo canadese, già nel 1967 affermava che “il canale è il messaggio”: le caratteristiche del media, ovvero il canale che trasmette il messaggio da emittente a ricevente, modifica la natura stessa del messaggio. Questo principio è più attuale che mai: il nostro modo di presentarci sui social tramite foto, post, commenti, video ecc. non rappresenterà mai esaustivamente chi siamo e cosa facciamo, almeno non come una chiacchierata a quattr’occhi. Pensate che in America si è verificata un’impennata di operazioni di chirurgia plastica su ragazze giovanissime: hanno modificato la realtà del loro volto per rendersi simili alla propria immagine “filtrata” sullo schermo.

Quasi che la realtà virtuale possa rendere perfetto ciò che nel mondo reale è imperfetto.

Gli esperti affermano che la condivisone di selfie è una delle attività più frequenti. Possiamo ben comprendere perché: soddisfa il proprio bisogno di essere visti, di essere soggetto di curiosità, di sentirsi parte di una comunità globale. Ma, soprattutto, ci tiene incollati allo schermo: vogliamo monitorare la nostra popolarità. Più aumentano i feedback degli altri utenti (like) più sentiamo di essere approvati. Questo è ormai diventata una dipendenza.

Sia per le dipendenze da sostanze che per le dipendenze comportamentali (es. gioco d’azzardo) svolge un ruolo fondamentale il “circuito di ricompensa” che ha sede nel cervello. Questo sistema orienta la persona a ricercare stimoli che in passato hanno portato ad una gratificazione (nel nostro caso, il numero di like) rinforzando la motivazione a ricercarne quantità sempre maggiori.

Ciò potrebbe spiegare il passaggio da uso ad abuso dei social network. Nonostante ci sia bisogno di un maggiore approfondimento, possiamo ammettere che i social letteralmente ci catturano. Avevo già pensato all’uso problematico del tempo, ma ora vado più in profondità: perché Internet mi cattura? Qual è il vuoto che riempio, navigando ossessivamente in rete?

Di recente ho visto un interessante docufilm prodotto da Netflix: “The social dilemma” dove alcuni “pentiti” ingegneri di Twitter, Facebook, Instagram, Pinterest, Google… denunciano i danni sociali provocati dall’abuso dei social e di internet. Viene proposta una tesi inquietante: “se non paghi per il prodotto, il prodotto sei tu”. I prodotti gratuiti, come Facebook ed Instagram, catturano la nostra attenzione, continuando a raccogliere dati sulle nostre preferenze, le nostre attività, le posizioni geografiche ecc… per poter influenzare le nostre idee e condizionare le nostre scelte.

Un’infinita possibilità di connessione e uno sconfinato accesso all’informazione ci rendono soggetti liberi? Quanto siamo padroni della nostra attenzione? Quanto riusciamo a rimandare il momento in cui controlleremo la nuova notifica?

Senza un utilizzo che sia sobrio e pensato, con molta probabilità paghiamo il contrappasso: l’impoverimento delle relazioni interpersonali, l’alterazione della percezione del tempo, la confusione tra mondo virtuale e mondo reale (qual è quello più importante?), le modificazioni dell’umore in base al successo derivante dai contenuti che abbiamo condiviso. La dimensione psicologica va a pari passo con quella spirituale, e mi chiedo: se la mia attenzione è occupata da questi contenuti così seduttivi, che spazio può trovare Dio per parlarmi?

Ho discusso spesso con persone che mi hanno detto che non sentono Dio, dubitando della sua esistenza. Mi domando se Gli hanno mai dato la possibilità di parlare, mi chiedo se hanno mai preso in mano la Parola perché parlasse al loro cuore. Per tutto questo c’è bisogno di attenzione!

L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato

(Rm 5,5): Dio abita nel tuo cuore, lascia che ti metta “mi piace” sul cuore, che te lo dica, che te lo faccia sentire. Ti assicuro che tutti gli altri like impallidiranno davanti alle parole di tuo Padre:

Tu sei il figlio mio, l’amato: in Te ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17)

 

Dalla Rivista Sulla Via della Pace n° 64, articolo di Anna Cavedon
Psicologa
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